30 aprile 2010

Barcellona, no hay "remuntada"


Dopo due giorni, quindi colpevolmente in ritardo, parliamo dell'impresa dell'Inter al Camp Nou che ha permesso ai nerazzurri di approdare alla finalissima di Madrid dopo 38 anni di assenze ingiustificate e di figuracce messe assieme in serie.

Il Barcellona l'aveva buttata in caciara fin dal giorno seguente alla sconfitta di San Siro, creando un clima assolutamente infernale attorno ad una gara che nonostante l'1-3 avrebbe potuto tranquillamente ribaltare utilizzando semplicemente la sua arma letale: il gioco, e l'enorme potenziale offensivo di cui solo loro dispongono.

E invece l'ambiente blaugrana ha puntato più a lanciare segnali prima dell'incontro che a tradurli realmente sul campo: i proclami di "remuntada", il "venderemo cara la pelle" e la spacconata di Piquè che voleva far "odiare la professione" agli avversari, si sono rivelati alla fine sintomi di una tensione che la squadra campione in carica avvertiva fortemente e che poi è stata forse l'arma a doppio taglio che ne ha causato l'eliminazione.

Già, perchè se da un lato è vero che i nerazzurri sono stati rintanati nella loro metà campo per tutto l'incontro (considerata anche l'inferiorità numerica per l'espulsione di Motta) è pur vero che del Barcellona "illegale" di un anno fa e visto nella Liga nell'ultimo mese e mezzo è rimasto soltanto uno sterile possesso palla reiterato ed una cronica difficoltà a trovare gli spazi per bucare Julio Cesar.

La gara dell'Inter, al di là della beatificazione di Mourinho, è stata tatticamente fin troppo ovvia: una rivisitazione dei 90 minuti del Chelsea di Hiddink un anno fa, con la differenza che lì i Blues ebbero l'occasionissima con Drogba, mentre stavolta i nerazzurri hanno concentrato tutta la loro produzione offensiva su un tiraccio di Chivu da 40 metri, peraltro abbondantemente a lato. Perso Pandev all'ultimo minuto, il portoghese ha buttato dentro proprio il romeno come esterno alto nel 4-2-3-1, che in realtà è diventato ben presto un 4-5-1 con i due finti trequartisti d'attacco ridotti a terzini di vecchio stampo.

La cosa assolutamente incredibile è che questo atteggiamento, che allo spettacolo ha lasciato ben poco, si è rivelato un antidoto quasi ottimale per il tipo di gioco che ilBarça è capace di esprimere soprattutto in casa: spazi ridottissimi, e la fitta rete di passaggi e passaggini tipica dell'undici di Guardiola è andata spesso in tilt contro la doppia linea difensiva eretta dalla squadra nerazzurra. A conti fatti, in 80' l'unico rischio serio è stato corso quando Messi con la sua solita azione da destra verso l'interno ha fatto partire un tiro a giro che Julio Cesar ha mandato in angolo con la punta delle dita: per il resto, palla sempre ai catalani, minuti che scorrono e un'Inter che anche in 10 ha tenuto botta con sacrificio e un'abnegazione tattica quasi commovente.

Barcellona che, come detto, si è fatto del male da solo, e stavolta Guardiola ha di che riflettere su alcune scelte tattiche importanti. Innanzitutto, l'equivocoIbrahimovic, il cui innesto nell'orchestra Barça può dirsi per il momento assolutamente fallito: non è un caso che tolto di mezzo lo svedese, la squadra abbia raddoppiato la quantità di palle gol costruite e la qualità del possesso palla. Non c'è la controprova, ma la sensazione è che con Bojan nel doppio confronto il Barçaavrebbe fatto molto più male.

L'Ibra visto in questa semifinale, sempre fermato da Lucio e Samuel e mai capace di calciare una sola volta in porta, non è altro che un paracarro palesemente in difficoltà in un complesso che gioca a memoria. Non c'è più la squadra che gioca per lui come l'Inter della scorsa stagione, bensì una formazione che nel suo spartito aveva in Eto'o un interprete eccezionale, mentre nello svedese sta trovando una voce fuori dal coro, per giunta stonata.

Il calcio tra l'altro sa essere beffardo: Ibra andò via dall'Inter perchè voleva vincere quella Champions che a Milano non avrebbe mai vinto, e si ritrova eliminato in semifinale proprio dalla stessa Inter, senza peraltro riuscire mai a toccare palla. L'ennesima dimostrazione di un attaccante tecnicamente straordinario, ma capace di fare la voce grossa solo in gare ordinarie, sparendo poi puntualmente quando c'è da fare davvero la differenza. Chissà se tornando indietro, i catalani rifarebbero lo stesso, costosissimo scambio..

E intanto, oltre alla qualificazione, mercoledì i campioni d'Europa in carica hanno perso buona parte dello stile che fin qui li aveva sempre contraddistinti: la sceneggiata di Busquets (il rosso a Motta, per doppio giallo, ci stava comunque anche senza quella prova teatrale), la polizia chiamata dall'Inter per disturbo alla quiete pubblica vicino l'albergo e arrivata solamente alle 3 di notte, gli idranti aperti dagli addetti subito dopo la fine della gara con i nerazzurri ancora festanti in mezzo al campo, gli esattori che chiedono ad Eto'o tasse arretrate, insomma, un ambiente che definire ostile è un eufemismo.

Era solo una partita di calcio, e se fosse stata interpretata come tale senza il clima da corrida che si è andato a creare forse oggi il Barcellona starebbe festeggiando una finale di Champions League. Così non è stato, e per l'Inter è un'impresa di valore assoluto, che consacra definitivamente la squadra di Mourinho ai massimi livelli del calcio europeo.

Si può discutere di tutto, del fischio sul mani di Keita che ha reso vano il gol diBojan, dell'atteggiamento catenacciaro dei nerazzurri fin dal 1', del rigore non dato su Alves dell'andata, ma la sostanza non cambia: l'Inter di novembre è cresciuta, e giocandosela con le più grandi d'Europa oggi è in finale di Champions League, con merito. E la linea di galleggiamento del nostro Paese nel ranking Uefa passa anche dall'esito della finalissima del 22 maggio contro il Bayern Monaco: non sarà soloInter-Bayern, ma sarà l'ultima possibilità per vincere questo personalissimo e ormai cruciale Italia-Germania.



Antonio Capone (twitter - @tonycap83)

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